Tereza Fischer in merito a "Siamo italiani"

Nella storia del cinema sono rare le innovazioni tecniche, che hanno rivoluzionato la realizzazione di documentari, come è successo con lo sviluppo di videocamere maneggevoli e di registratori suono sincronizzati e portatili: non solo tali apparecchi hanno consentito di osservare direttamente la vita quotidiana, ma anche di fare a meno di allestimenti scenografici e di commenti arbitrari ed esplicativi. Invece di riferire sulle persone e su determinati aspetti della quotidianità, è stata data ai protagonisti stessi l’opportunità di parlare della propria vita, rappresentandola in tutta la sua complessità. “Siamo italiani” è il primo e più importante contributo svizzero al cinema in presa diretta. Alexander J. Seiler, June Kovach e Rob Gnant hanno realizzato un documentario impegnato sui lavoratori immigrati dal Sud Italia negli anni Sessanta, attirati dall’industria svizzera in piena espansione. Non solo il film documenta con lucida eloquenza le condizioni di vita, spesso precarie, degli emigranti, ma si interessa anche ai destini individuali. Senza ricorrere a un commento analitico, ma attraverso un montaggio sapiente, il film diventa il documento di un’epoca, presentando un quadro poliedrico della realtà in cui vivevano gli emigranti.

Cristina Trezzini in merito a "Siamo italiani"

“Cercavamo braccia e sono arrivati uomini”. E’ grazie al film (e poi al libro) di Alexander J. Seiler che Max Frisch scrisse questa frase capace di riassumere in poche incisive parole il rapporto che la Svizzera ebbe con la prima immigrazione (soprattutto italiana) degli anni ’60. Forza lavoro di cui l’economia elvetica aveva bisogno, ma che non si riteneva necessario considerare come “umana”.

«Siamo italiani» ebbe all’epoca l’effetto di uno schiaffo morale. Per la prima volta qualcuno osava dare la parola allo straniero, al “Gastarbeiter”, a quel lavoratore guardato con diffidenza perché diverso, appartenente a una comunità di 500’000 italiani percepita come sporca, rumorosa e pericolosa dai benpensanti svizzeri. Seiler si arma della sua cinepresa e documenta in presa diretta frammenti di vita: l’arrivo alla dogana, il soggiorno nelle baracche, l’emarginazione, la discriminazione, il tempo libero, la solitudine famigliare, vari tasselli che andranno a creare un commovente quadro collettivo. Sensibile e mai invasivo, riesce a raccogliere testimonianze preziose che lo renderanno l’indiscusso Maestro precursore del cinema impegnato in Svizzera.

Immagini forti, in bianco e nero, testimonianze scomode ma necessarie, ancora oggi, a oltre mezzo secolo di distanza. Uno dei documentari più belli sul mondo dell’emigrazione in Svizzera.